(Roma, 27 giugno 2018) Le famiglie residenti in Italia nel 2017 che vivono in povertà assoluta, ovvero che non hanno potuto permettersi un paniere di beni e servizi essenziali per uno standard di vita accettabile, sono 1 milione e 778mila corrispondenti a 5 milioni e 58 mila persone. Lo comunica l’Istat nel suo ultimo rapporto “La povertà in Italia. Anno 2017”.
Nel giro di un anno i dati dell’Istituto di statistica segnano un peggioramento della condizione di indigenza: l’incidenza della povertà assoluta era nel 2016 del 6,3% per le famiglie, nel 2017 è al 6,9%; gli individui poveri assoluti erano il 7,9% della popolazione mentre a fine 2017 siamo arrivati all’8,4%. Anche se una parte di questi incrementi (due decimi di punto) è sostanzialmente dovuta all’inflazione registrata nel 2017, rimane il dato drammatico, sia che ci si riferisca alle famiglie che ai singoli individui, di rappresentare i valori più alti dal 2005 ad oggi. Un record: mai così tanti poveri da quando è possibile contarli. E questo nonostante dal 2015 l’economia italiana abbia faticosamente cominciato a ripartire.
L’incidenza della povertà assoluta aumenta prevalentemente nel Mezzogiorno sia per le famiglie (da 8,5% del 2016 al 10,3%) sia per gli individui (da 9,8% a 11,4%), soprattutto per il peggioramento registrato nei comuni Centro di area metropolitana (da 5,8% a 10,1%) e nei comuni più piccoli fino a 50mila abitanti (da 7,8% del 2016 a 9,8%). La povertà aumenta anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord.
Stime allarmanti se si pesa che “l’incidenza della povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento”. Dove le famiglie poggiano sul reddito di un ultra-sessantaquattrenne il valore di povertà è minimo (4,6%), mentre raddoppia e più (9,6%) quando i capifamiglia sono under 35. Come a dire che le famiglie dei pensionati stanno meglio anche di quelle che vivono con la busta paga da operai: l’11,8% di queste ultime si trova infatti sotto la soglia minima mensile, contro il 4,2% dei pensionati. E’ il cosiddetto paradosso working poor per il quale chi ha un lavoro vive peggio di chi può contare solo sulla pensione.
Anche la povertà relativa, cioè quella calcolata su una spesa di 1.085,22 euro mensili per una famiglia di due persone, cresce rispetto al 2016. Nel 2017 riguarda 3milioni 171mila famiglie residenti il 12,3%, contro il 10,6% nel 2016, e 9 milioni e 368mila individui, il 15,6% contro il 14% dell’anno precedente.
Questi e i molti altri dati riportati nel report dell’Istat una cosa seppur in maniera molto ruvida ce la dicono: non possiamo più ignorare quei cinque milioni e passa di poveri assoluti. Occorrono interventi prioritari di lotta all’esclusione sociale.
Come Partito Democratico abbiamo nei giorni scorsi chiesto al Governo Conte di prendere provvedimenti per estendere il Reddito di Inclusione, misura introdotta dal Governo Gentiloni proprio per osteggiare le condizioni di povertà e miseria, che dal 1 luglio 2018, con il venir meno di tutti i requisiti soggettivi, diventerà un vero e proprio strumento universale di contrasto alla povertà, basato solo sul soddisfacimento dei requisiti economici, capace di sussidiare 700mila famiglie in povertà estrema. In conferenza stampa il PD ha proposto alle forze di maggioranza Lega e M5S di intervenire ripartendo proprio dal REI, implementandolo, proseguendo lungo la strada già tracciata dai Governi di centrosinistra. Come? Allargando la platea dei beneficiari in modo da coprire i cinque milioni di persone in povertà assoluta rilevati dall’Istat, raddoppiando le risorse da 3 a 6 miliardi di euro ogni anno a regime e per sempre (ricordiamoci che prima del governo Renzi c’erano a bilancio solo 40 milioni sperimentali per il contrasto alla povertà), migliorando i servizi di inclusione con una presa in carico e un piano individuale-famigliare da parte dei servizi sociali per aggredire le condizioni di bisogno. Sono questi i tre pilastri illustrati dal PD, messi a disposizione del governo Conte da cui iniziare, se si vuole, da subito a lavorare.
Tuttavia la risposta del nuovo governo pentaleghista non risulta ancora pervenuta. Si riparte dal Rei o si ricomincia da capo? E in tal caso perché? M5S e Lega continuano a parlare di un costosissimo reddito di cittadinanza e di un potenziamento dei Centri per l’impiego generando molta confusione. Ha, infatti, ragione Dario Di Vico che sul Corriere della Sera, commentando i dati sull’indigenza, riferendosi al reddito di cittadinanza, fa notare come “[…] restano poco chiari la platea interessata e le coperture finanziarie assieme a un equivoco di fondo che è ricorrente. Il reddito che ha in mente Di Maio è una misura contro la povertà o contro la disoccupazione? E’ vero che le due figure sociali in parte coincidono, ma solo in parte”. Nel primo caso allora “si potrebbe lavorare sull’impianto del Rei e potenziarlo”. Nell’altro caso “le soluzioni sono tutte da inventare e lo stesso ministro nei giorni scorsi aveva ventilato l’ipotesi di ripescare la formula del lavoro socialmente utile”.
Creare incertezza sulle risorse e sugli strumenti utilizzabili per il contrasto alla povertà è fare un passo indietro alla lotta contro l’indigenza. Mentre aspettiamo che l’equivoco di Di Maio venga sciolto, rimangono quei cinque milioni e 58mila di individui che non riescono a comprare quel paniere di beni che permetterebbe loro di vivere una vita dignitosa. Loro non possono più attendere.